Nelle piazzette brianzole, nelle sagre paesane del bergamasco, nei raduni più passionali della Valsugana, va sempre in onda il solito film lumbàrd leghista. Quello della bufala Padanìa, quello della secessione indipendentista con moneta unica coniata Calderolo, quella insomma della lotta, dei rutti, e anche un po’ delle scorregge. La Lega vera, cruda e rude, quella che non le manda a dire e, anzi, il più delle volte, ti manda affanculo.
Il doblone padano ci ha però mostrato nel tempo e nelle legislature una Lega di governo, affezionata a cadreghe e poltrone parlamentari, e molto più romana di chè se ne vada dicendo tra le borgate veneto-piemontesi. Una vera e propria Lega di dominio pubblico. Anzi, di finanziamento pubblico. Che prima sputa e vomita di gusto sugli scranni ministeriali, poi gode e si sollazza del brodo (grasso) che gli vien servito ad ogni stagione sulle tavole ben imbandite dai ricchi e cospicui finanziamenti donati dallo Stato italico nemico. In due parole: rimborsi elettorali.
Tanto bistrattati e censurati, ma che poi fanno il comodo di tutti, perchè sono la manna che serve per mettere in regola i conti di partiti sempre e costantemente in profondo rosso. O almeno, dovrebbero. Eh sì, perchè invece vien fuori che un tale Francesco Belsito, il vero Tremonti leghista, nel giro di appena due settimane, a cavallo tra metà e la fine del dicembre 2010, gestisce in completa e personale autonomia il seguente giro di affari pubblico: un milioncino di euri in pregiate corone norvegesi al tasso non troppo generoso del 3,5%, poco più di un altro milione in un fondo cipriota, oltre all’ormai famigerato collocamento tanzanese da quattro milioni e mezzo, benedetto dal consulente Bonet, già fallito a suo tempo in società con l’ex ministro “fantasma” Aldo Brancher. Bella storia, non c’è che dire, da catalogarsi alla voce “I soliti faccendieri italici”. Se non fosse che il danaro provenisse dalle tasche di un soggetto molto particolare. Il buon vecchio e sempre più smilzo Pantalone. Che tira sempre fuori di tasca sua. Tè pareva.
Ora, senza alcuna velleità mediatico processuale in stile FattoQuotidiano, esiste una domanda che non può che sorgere diretta, spontanea ed anche un pelo irriguardosa: “Può un partito che ottiene sovvenzioni statali elettorali, che dovrebbero riguardare l’esclusiva della propria ossatura partitica e delle sedi che la compongono, spingersi ad effettuare una serie di investimenti del tutto personali e, se ci è concesso, un tantino rischiosi ed azzardati?” Tanto più quando sul mercato del debito di allora i Bot rendevano oltre il 6%. La risposta dovrà darla il paciarotto e tesorier deus ex machina leghista a tutto il popolo del Carroccio, che oggi come non mai pare iniziare a sollevare qualche lieve perplessità sulla gestione monarchica di Re Umberto ed il suo strettissimo ed affiliatissimo staff personale. A cui fa parte Francescone Belsito, uomo carta-bianca del Senatùr, che giustifica tale gestione tra paradisi fiscali e non con il politichese “noi ci affidiamo a banche e promotori di cui ci fidiamo, e quei fondi erano più convenienti dei Bot“. Che, detto tra noi, non ci può bastare. Anche senza entrare nel merito della questione dei rimborsi, assurdi ed inconcepibili per come vengono determinati e poi somministrati (vedi quelli forniti a giornali “zero copie” come Il Manifesto), e che non fan altro che ingrassare sempre più la Casta macchina politica, e spremere il limone di uno Stato in versione cicala. Oltre a far infuriar ancor più no’ altri, contribuenti e pagatori del Debito. Che poi veniamo a scoprire, a distanza di secoli, che i nostri sudati e meritati danari sono girati in partite fiscali e finanziarie, invece di finire subito a persone o cose a cui erano stati promessi ed istituiti.
Dalla Padania alla Tanzania. Viaggio tra le contraddizioni leghiste. A nostre spese.