Le scene di generale lacrimazione e di provatissimi pianti reali che i militanti padani ci hanno mostrato ieri davanti alla sede di via Bellerio e con i loro spassionati interventi nell’etere di Radio Padania, somigliavano davvero tanto a quelle a cui abbiamo assistito durante l’iperbolica parata di commemorazione al tiranno Kim Jong-il, nel dicembre scorso. Con la differenza che se, tra gli occhi a mandorla coreani qualcuno si fosse permesso di non ubbidire al triste singhiozzo di Stato, sicuramente ci avrebbe rimesso le penne. Per il resto lo scenario ed il palcoscenico è quasi il medesimo. Se n’è andato il leader maximo, il grande capo supremo, il boss, il padre-padrone, il re Magno, il monarca padano, l’egemone incontrastato, il patriarca, il venerabile. Il sovrano assoluto del Settentrione. Se n’è andato Bossi Umberto. Mente, braccio e vita della Lega Nord. Generale staliniano e protagonista tra le due Repubbliche.
Re Umberto se ne va al momento giusto, anche se quello opportuno era passato per lo meno da quattro anni. Esce di scena e chiude il sipario quando la tempesta e la burrasca padana è solo all’inzio, ma il suo gesto non potrà che aiutare la massa nordista a ritrovare quella coesione ed intenti battaglieri andati perduti da ormai una legislatura. Lascia la mano e le truppe finto-celtiche nel picco della sua carriera politica e nella totale fase discendente di quella fisica. E questa è una colpa grave, sua e del cerchio magico – in primis – del cosciente ed ambizioso gruppo maroniano – in secundis. La cruda ma verissima realtà leghista è che il Capo era bello che andato da un bel po’. Dal 2004, ovviamente. Già fu miracoloso salvare la pellaccia dopo un non proprio leggerissimo ictus cerebrale. Già fu molto rimettere in piedi quel bellimbusto che fino a quel tempo ne aveva combinate assai. Ma la sua caprona cocciutagine innata, gli interessi di scalata di una serie di approfittatori che aveva al fianco, ed il terrore ostinato della piazza di poter perdere la propria guida pastorale, hanno fatto sì che Padre Umberto tornasse in sella a cavalcare i sogni e le velleità padane. Ma nè il carisma nè tanto meno il corpo riuscivano più ad assecondare lo spirito del redivivo Bossi.
E fu l’inizio di una lungo e travagliato The End. Il patto rinnovato col Berlusca diede più sicurezza e floridità economica al Carroccio, ma ormai il trasfornmismo ed il caos leghista erano sempre più evidenti e palesati. La parentesi eterogenea dell’Ulivo crea un legame all’apparenza indissolubile col Pdl, ma l’ultimo viaggio a Roma della Lega sarà quanto di più inconsistente e contraddittorio che si è visto nella galassia repubblicana, costando di fatto la pelle (e le palle) al Cav. e segnando il game over della seconda grande era politica nazionale. Il Carroccio in un batter d’ampolla passa dall’essere forza anti-Stato a costola portante del progetto camussiano; da ipergiustizialista da trincea a garantista arci liberale; da anti-democristiano clericale a difensore estremo di famiglia e valori cattolici. Dal cappio suicida di Tangentopoli alla Porche di Cicciobello Belsito. Da Roma Ladrona! a Somos todos caballeros. Il passo è breve, ma il danno è fatto.
I risultati politici, per giunta, fanno il paio con le quotidiane smentite e ritrattazioni confuse di un capo sempre più in balia di sè stesso e del Cerchio. Nel decennio di governo-verde e, principalmente nell’ultimo scapolo del Berlusconi Quater, va in onda l’esatto opposto di ciò che lo statuto padano aveva – sin dai primordi – costantemente millantato. Aumento senza fine di debito e pressione fiscale, Stato sempre più opprimente e muscolare, corruzione mai così dilagante, e quel bel progetto federalista che affonda come un’esile ed evanescente barchetta di sottilissima cartapesta. Goffo e tragicomico è il formato dell’Umberto recente, con rutti, stronzi e vaffa conditi da dita medie che si alzano e di susseguono in un circense crescendo verdiano.
La claudicanza della leadership forte e riconosciuta non attenua il sacro culto della personalità bossiana, che però continua ad ottenebrare le menti del nord e distribuire cecità tra la militanza. Che non si accorge dei disastri celtici e continua a seguire il suo Napoleone fino alle soglie di Waterloo. Mentre tra i colonnelli c’è baruffa e ci si accapiglia di brutto ma, vuoi per timore o sudditanza, alla fine la spallata non si concretizza mai. Maroni è l’alfiere riconosciuto, e pure la base lo vorrebbe, ma il cerchio bossiano tiene botta sino all’ultimo, fino a far saltare definitivamente il tappo della frizzantissima bottiglia padana. Verde di vergogna. Il resto è storia recentissima di ordinaria appropriazione indebita dalle generose casse pubbliche, con loschi figuri faccendieri che distribuiscono oro, incenso e Porsche, e virgulti poco assennati che amano giocare a Chi vuole essere milionario. Coi soldi de no’ altri.
Re Umberto lascia una Lega alla frutta ed ai minimi termini, dove pure il lato carneval-grottesco sembra essersi ormai parecchio attenuato. Chiusa la reggia di Monza (con dentro la monaca Brambilla, ndr), evaporati in un flop gli ultimi riti ampollistici, ammainata anche l’ipocrita bandiera seccessionista, al Carroccio non rimane che riprendere la propria corsa da dove era partito, nell’unica strada percorribile per il suo agoniato ma più che probabile riscatto: il suo popolo, sempre presente, fedele e battagliero, che non lascia mai la nave che affonda, e che ora come non mai vuol tornare a far sentire la sua voce. Quella grossa, quella rauca, come gli ha insegnato il suo maestro di tante battaglie.
Mentre il Triumvirato che dovrà traghettare la zattera sino ad ottobre non parte proprio esattamente col piede giusto – la nomima del Calderoli è quanto meno inopportuna, visto che pare abbia entrambe le mani dentro il vasetto marchiato the family – a noi piace ricordare padron Umberto come quello dei tempi d’oro, quello arzillo ed arrogante di vent’anni fa. Quello con la bava alla bocca e qull’improponibile cravattona allentata, quello con quegli occhialoni da prima repubblica e quel capello che più arruffato non si può. Il Bossi che sapeva entrare nella pancia della gente, il Bossi che faceva pulsare i cuori, il Bossi che riusciva a regalare una speranza, e pure un sogno. Quel Bossi lì, quello che provocava e ci faceva scaldare, e che era ancora in grado di emozionarci assai. Quello che, da ieri, è entrato di diritto nei libri di storia. Per rimanerci.
Ciao Umberto, rozzo ma passionale, ignorante ma precursore. Addio Bossi. La tua canotta non si spezzerà mai.
potevi scrivere solo tre righe in merito la dipartita di Bossi. sei riuscito a fare un poema. Lega come PdL come Pd, come Udc, come Margherita. l’esistenza di interessi economici genera illeciti a tutti i livelli. Peccato. Era nato come un partito con radici popolari notevoli, è finito come tutti gli altri. Imploso per le ambizioni della classe dirigente, lontano dal suo elettorato
banale e noioso. gigi
Ha ragione mauro, Lega rovinata dal suo stesso cappio. giò
non diciamo però che il Capo non sapeva, per favore. checco
Sculason che poema…è finito come tutti gli altri..a rubare come tutti gli altri al suo popolo..cioè a noi!!aveva dei buoni fondamenti la Lega, ma quando arrivano poi non c’è storia, tutte merda senza un minimo di pudore..alla forca tutti!!e poi dicono che lo zio Benito era cattivo??Sti du maron!!!ce ne vorrebbe un’altro!!!
Lemoine
che populismo nostalgico…non penso che la soluzione a questo male sia la dittatura. basta togliere il finanziamento pubblico ai partiti. semplice.
Giò
Bossi non ne sapeva un cazzo, e rimane l’unico integerrimo di questo sistema! Lunga vita al Senatur.
giorgio g.
ladri! ladri! ladri!
renzo
bel pezzo, anche se il finale da libro cuore te lo potevi risparmiare. 7–
michele
Che bella figura di merda! Progetto leghista marcito nello stagno del trota.
fabio c.