Speriamo che ora tacciano tutti per sempre. E per tutta l’eternità pallonara. Albiceleste o meno. Lionel vomitiño Messi la Pulga non era, non è e non sarà mai minimamente paragonabile a Diego Armando Maradona. Se lo mettano per bene nel cabezòn tutti quegli pseudo intelettualoidi del calcio internazionale de nò altri. Si zittiscano e si cospargano il capo di pulci i miseri detrattori del Dieguito giocatore, sempre alla ricerca di un nuovo vate da accostare al Pibe. E soprattutto si ammutoliscano quei giornalisti nazional popolari sempre pronti a cavalcare l’onda dell’emotività del momento storico; sputando e vomitando addosso a colui che non più di due ore prima idolatravano e al quale si appecoravano proni e assai caldamente. Ogni riferimento al nutritissimo e costosissimo circo di Rai Sport è ovviamente puramente voluto.

L’immagine emblematica e catatonica che da sola smentisce e confuta totalmente l’improbo paragone della vigile è quella del time-out al primo supplementare della finalissima domenicale. Il triste e gagliardo Sabella – impomatato a lucido e sempre tirato da matrimonio – chiama a se’ la ciurma argentina per dare le ultime indicazioni per il quarto d’ora finale prima degli eventuali penalty. Attorno a lui ci sono tutti. Massaggiatori, assistenti, collaboratori, titolari, riserve, dodicesimo e tredicesimo. Tutti. Per ascoltare magari i soliti e retorici accorgimenti tattici di quei caldissimi frangenti. O caricarsi vicendevolmente per il rush finale che può decidere una vita. Tutti. Meno che uno. Il fenomeno. Che se ne sta in disparte, aggirandosi attonito e “superiore” al di la’ del cerchio magico creato dal mister. Sorseggiando al rallenty una boccetta d’acqua d’ordinanza. Tanto per ingannare il tempo. Tanto lui è il campione, il numero uno, e non può abbassarsi al livello di Garay e Gago, stando insieme al gruppo, in mezzo al conjunto. Roba da andarlo a prendere per le orecchiette alla Dumbo, schiaffeggiargli a più riprese quella carra de tonto, e farlo sedere in mezzo con il cappello da asino mentre Mascherano e Zabaleta lo tengono a terra con qualche sana e salubre pedatina dalle parti dell’osso sacro.

Basterebbe questo per cancellare ogni traccia da ogni tipo di paragone calciofilo, anche con Gustavo Abel Dezotti e Pedro Antonio Troglio. Perchè se nell’istante del momento della partita più importante della tua esistenza ti tiri fuori scentemente dalla mischia in questa maniera sbruffona e pusillanime, beh allora significa che non c’è Balon de Oro che tenga per poter arrivare dove El Diez (quello vero) è arrivato. Con garra, con corazon, con cojones. Con carica, cuore e coglioni. Quello che Diego Armando emanava da ogni poro del suo piccolo e tondo corpo ad ognissanta partita che contava. E più una partita era decisiva e determinante, più lui c’era sempre, e sempre di più. Perchè bastava un suo cenno per lanciare l’affondo di Burruchaga. Era sufficiente un suo mezzo sguardo e Caniggia era già un porta. E la sua sola sua presenza con quella “hincha” da leader del popolo, in campo faceva letteralmente trasformare ogni suo compagno, ogni sua squadra. Con lui Garella pareva Yashin, e Renica-Bruscolotti due centrali da Nazionale. Accanto a lui Cuciuffo e Giusti erano un fortino invalicabile, e il discreto Enrique diventava Garrincha. Affianco a Diego Ruggieri, Lorenzo e Basualdo sfiorarono l’iride, e quel bell’imbusto di Carlos Bilardo andò a un centimetro da una doppietta storica. Maradona vinse un Mondiale da solo con una squadra che più o meno valeva il Lecce o l’Atalanta dell’epoca, portò un’altra finale con un branco di umili “cagnacci”, e vinse tutto il possibile inimmaginabile in terra partenopea, mettendosi dietro Platini, Rumenigge, e pure Sacchi con tutti gli olandesi volanti.

 Diego in campo caricava tutti, soprattutto nei momenti topici. La stampa, l’ambiente, il pubblico, la città, la periferia, i difensori, lo stopper, il libero, i mediani, le mezzale, le punte, i magazzinieri, la panchina, e ovviamente Salvatore Carmando. Questo era Diego Armando Maradona. Che nelle partite che contavano c’era sempre, col sudore, con i tacchetti, con il pianto. Sapendo di avere in se’ e nella squadra la responsabilità e la fierezza di una città, di una nazione, di un popolo intero. In cui si immedesimava, e con il quale soffriva ogni volta che calcava il rettangolo. Perchè lui era la sua gente, e la rappresentava come un condottiero che andava in guerra, in maniera viscerale e rivoluzionaria. E la sua gente non poteva che riconoscersi in lui, nel Pibe. Nel bene e nel male. Nella gioia e nella sofferenza.

E provando a fare un parallelo tra il fermo immagine di Maradona – ai quarti con l’Inghilterra nel Mundial ’86, in cui al momento degli inni Diego guarda con fare cagnesco di sfida ogni componente di Sua Maestà, oppure quello della finale del ’90, quando il Dieci, carico a pallettoni, sbotta in mondovisione con un doppio “hijos de puta” rivolto al pubblico italiano che gli stava fischiando l’inno – e quello dall’altra parte di un’abulico, svogliato, inebetito e muto Lionel Pio Messi, che passeggia solo ed altezzoso mentre il mister sta catechizzando la baracca, incurante degli sguardi del massaggiatore che lo intima ad unirsi all’equipo, e quello ancora dello stesso Lio che prima getta colpevolmente alle ortiche una punizione allo scadere, e poi va a ricevere scazzatissimo e rincretinito la ridicola bufala del Pallone d’Oro, guardando fisso il vuoto e la balaustra senza manco condividere e ringraziare la squadra e l’allenatore che lo hanno supportato (e sopportato) come un infante ad ogni suo capriccio e diktat per tutta la durata del Torneo, beh, signori miei amanti dello sport più bello del mondo, questa è la reale e cruda differenza che corre tra il più grande calciatore di tutti i tempi, ed un grande giocatore da play station. Quando arrivavano le partite vere, Maradona faceva la storia. Domenica, invece, quando la storia poteva prenderselo con se’, Lionel Messi sbuffava, fissava il vuoto, e vomitava.

 

 

 

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